Il discorso di Papa Francesco ai referenti diocesani del Cammino sinodale
25 Maggio 2024
Nella mattina di giovedì 25 maggio, nell’Aula Paolo VI, Papa Francesco ha ricevuto in Udienza i partecipanti all’Incontro nazionale dei referenti diocesani del Cammino sinodale e ha
rivolto loro il discorso che pubblichiamo di seguito.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
Saluto tutti voi, Vescovi, insieme ai referenti diocesani, al Comitato e alla Presidenza: grazie di essere qui.
Questo incontro si colloca nel vivo di un processo di Sinodo che sta interessando tutta la Chiesa e, in essa, le Chiese locali, nelle quali i Cantieri sinodali si sono costituiti come una bella esperienza di ascolto dello Spirito e di confronto tra le diverse voci delle comunità cristiane. Ciò ha generato un coinvolgimento di tanti, specialmente su alcuni temi che riconoscete come cruciali e prioritari per il presente e per il futuro. Si tratta di un’esperienza spirituale unica, di conversione e di rinnovamento, che potrà rendere le vostre comunità ecclesiali più missionarie e più preparate all’evangelizzazione nel mondo attuale. Questo cammino è cominciato 60 anni fa, quando San Paolo VI, alla fine del Concilio, si è accorto che la Chiesa in occidente aveva perso la sinodalità. Lui creò la Segreteria per il Sinodo dei Vescovi. In questi anni è stato fatto ogni quattro anni un Sinodo; nel 50° anni è stato fatto un documento sulla sinodalità – è importante quel documento -; e poi in questi ultimi dieci anni si è andati avanti e adesso si fa un Sinodo per dire cosa sia la sinodalità, che come sappiamo non è cercare le opinioni della gente e neppure un mettersi d’accordo, è un’altra cosa.
Vorrei perciò esortarvi a proseguire con coraggio e determinazione su questa strada, anzitutto valorizzando il potenziale presente nelle parrocchie e nelle varie comunità cristiane. Per favore questo è importante. Nello stesso tempo, poiché, dopo il biennio dedicato all’ascolto, state per affacciarvi a quella che chiamate “fase sapienziale”, con l’intento di non disperdere quanto è stato raccolto e di avviare un discernimento ecclesiale, vorrei affidarvi alcune consegne. Con esse cerco di rispondere, almeno in parte, alle domande che il Comitato mi ha fatto pervenire sulle priorità per la Chiesa in relazione alla società, su come superare resistenze e preoccupazioni, sul coinvolgimento dei sacerdoti e dei laici e sulle esperienze di emarginazione.
Ecco, dunque, la prima consegna: continuate a camminare. Si deve fare. Mentre cogliete i primi frutti nel rispetto delle domande e delle questioni emerse, siete invitati a non fermarvi. La vita cristiana è un cammino. Continuate a camminare, lasciandovi guidare dallo Spirito. Al Convegno ecclesiale di Firenze indicavo nell’umiltà, nel disinteresse e nella beatitudine tre tratti che devono caratterizzare il volto della Chiesa, il volto delle vostre comunità. Umiltà, disinteresse e beatitudine. Una Chiesa sinodale è tale perché ha viva consapevolezza di camminare nella storia in compagnia del Risorto, preoccupata non di salvaguardare sé stessa e i propri interessi, ma di servire il Vangelo in stile di gratuità e di cura, coltivando la libertà e la creatività proprie di chi testimonia la lieta notizia dell’amore di Dio rimanendo radicato in ciò che è essenziale. Una Chiesa appesantita dalle strutture, dalla burocrazia, dal formalismo faticherà a camminare nella storia, al passo dello Spirito, rimarrà lì e non potrà camminare incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo.
La seconda consegna è questa: fare Chiesa insieme. È un’esigenza che sentiamo di urgente, oggi, sessant’anni dopo la conclusione del Vaticano II. Infatti, è sempre in agguato la tentazione di separare alcuni “attori qualificati” che portano avanti l’azione pastorale, mentre il resto del popolo fedele rimane «solamente recettivo delle loro azioni» (Evangelii gaudium, 120). Ci sono i “capi” di una parrocchia, portano avanti le cose e la gente riceve soltanto quello. La Chiesa è il santo Popolo fedele di Dio e in esso, «in virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro […] è diventato discepolo missionario» (ibid.). Questa consapevolezza deve far crescere sempre più uno stile di corresponsabilità ecclesiale: ogni battezzato è chiamato a partecipare attivamente alla vita e alla missione della Chiesa, a partire dallo specifico della propria vocazione, in relazione con le altre e con gli altri carismi, donati dallo Spirito per il bene di tutti. Abbiamo bisogno di comunità cristiane nelle quali si allarghi lo spazio, dove tutti possano sentirsi a casa, dove le strutture e i mezzi pastorali favoriscano non la creazione di piccoli gruppi, ma la gioia di sentirsi corresponsabili.
In tal senso, dobbiamo chiedere allo Spirito Santo di farci comprendere e sperimentare come essere ministri ordinati e come esercitare il ministero in questo tempo e in questa Chiesa: mai senza l’Altro con la “A” maiuscola, mai senza gli altri con cui condividere il cammino. Questo vale per i Vescovi, il cui ministero non può fare a meno di quello dei presbiteri e dei diaconi; e vale anche per gli stessi presbiteri e diaconi, chiamati a esprimere il loro servizio all’interno di un noi più ampio, che è il presbiterio. Ma questo vale anche per l’intera comunità dei battezzati, nella quale ciascuno cammina con altri fratelli e altre sorelle alla scuola dell’unico Vangelo e nella luce dello Spirito.
La terza consegna: essere una Chiesa aperta. Riscoprirsi corresponsabili nella Chiesa non equivale a mettere in atto logiche mondane di distribuzione dei poteri, ma significa coltivare il desiderio di riconoscere l’altro nella ricchezza dei suoi carismi e della sua singolarità. Così, possono trovare posto quanti ancora faticano a vedere riconosciuta la loro presenza nella Chiesa, quanti non hanno voce, coloro le cui voci sono coperte se non zittite o ignorate, coloro che si sentono inadeguati, magari perché hanno percorsi di vita difficili o complessi. A volte sono “scomunicati” a priori. Ma ricordiamocelo: la Chiesa deve lasciar trasparire il cuore di Dio: un cuore aperto a tutti e per tutti. Non dimentichiamo per favore la parabola di Gesù della festa di nozze fallita, quando quel signore, non essendo venuti gli invitati, cosa dice? “Andate agli incroci delle strade e chiamate tutti” (cfr Mt 22,9). Tutti: malati, non malati, giusti, peccatori, tutti, tutti dentro.
Dovremmo domandarci quanto facciamo spazio e quanto ascoltiamo realmente nelle nostre comunità le voci dei giovani, delle donne, dei poveri, di coloro che sono delusi, di chi nella vita è stato ferito ed è arrabbiato con la Chiesa. Fino a quando la loro presenza resterà una nota sporadica nel complesso della vita ecclesiale, la Chiesa non sarà sinodale, sarà una Chiesa di pochi. Ricordate questo, chiamate tutti: giusti, peccatori, sani, malati, tutti, tutti, tutti.
A volte si ha l’impressione che le comunità religiose, le curie, le parrocchie siano ancora un po’ troppo autoreferenziali. E l’autoreferenzialità è un po’ la teologia dello specchio: guardarsi allo specchio, maquillage, mi pettino bene… È una bella malattia questa, una bella malattia che ha la Chiesa: autoreferenziale, la mia parrocchia, la mia classe, il mio gruppo, la mia associazione… Sembra che si insinui, un po’ nascostamente, una sorta di “neoclericalismo di difesa” – il clericalismo è una perversione, e il vescovo, il prete clericale è perverso, ma il laico e la laica clericale lo è ancora di più: quando il clericalismo entra nei laici è terribile! –: il neoclericalismo di difesa generato da un atteggiamento timoroso, dalla lamentela per un mondo che “non ci capisce più”, dove “i giovani sono perduti”, dal bisogno di ribadire e far sentire la propria influenza – “ma io farò questo…”. Il Sinodo ci chiama a diventare una Chiesa che cammina con gioia, con umiltà e con creatività dentro questo nostro tempo, nella consapevolezza che siamo tutti vulnerabili e abbiamo bisogno gli uni degli altri. E a me piacerebbe che in un percorso sinodale si prendesse sul serio questa parola “vulnerabilità” e si parlasse di questo, con senso di comunità, sulla vulnerabilità della Chiesa. E aggiungo: camminare cercando di generare vita, di moltiplicare la gioia, di non spegnere i fuochi che lo Spirito accende nei cuori. Don Primo Mazzolari scriveva: «Che contrasto quando la nostra vita spegne la vita delle anime! Preti che sono soffocatori di vita. Invece di accendere l’eternità, spegniamo la vita». Siamo inviati non per spegnere, ma per accendere i cuori dei nostri fratelli e sorelle, e per lasciarci rischiarare a nostra volta dai bagliori delle loro coscienze che cercano la verità.
Mi ha colpito, a questo proposito, la domanda del cappellano di un carcere italiano, che mi chiedeva come far sì che l’esperienza sinodale vissuta in una casa circondariale possa poi trovare un seguito di accoglienza nelle comunità. Su questa domanda inserirei un’ultima consegna: essere una Chiesa “inquieta” nelle inquietudini del nostro tempo. Siamo chiamati a raccogliere le inquietudini della storia e a lasciarcene interrogare, a portarle davanti a Dio, a immergerle nella Pasqua di Cristo. Il grande nemico di questo cammino è la paura: “Ho paura, stai attento…”.
Formare dei gruppi sinodali nelle carceri vuol dire mettersi in ascolto di un’umanità ferita, ma, nel contempo, bisognosa di redenzione. C’è in Spagna un carcere, con un bravo cappellano, che mi invia messaggi perché io veda sempre le loro riunioni… Ma sono in sinodo permanente questi carcerati! È interessante vedere come questo cappellano fa uscire da dentro il meglio di loro stessi, per proiettarlo al futuro. Per un detenuto, scontare la pena può diventare occasione per fare esperienza del volto misericordioso di Dio, e così cominciare una vita nuova. E la comunità cristiana è provocata a uscire dai pregiudizi, a mettersi in ricerca di coloro che provengono da anni di detenzione, per incontrarli, per ascoltare la loro testimonianza, e spezzare con loro il pane della Parola di Dio. Questo è un esempio di inquietudine buona, che voi mi avete dato; e potrei citarne tanti altri: esperienze di una Chiesa che accoglie le sfide del nostro tempo, che sa uscire verso tutti per annunciare la gioia del Vangelo.
Cari fratelli e sorelle, proseguiamo insieme questo percorso, con grande fiducia nell’opera che lo Spirito Santo va realizzando. È Lui il protagonista del processo sinodale, Lui, non noi! È Lui che apre i singoli e le comunità all’ascolto; è Lui che rende autentico e fecondo il dialogo; è Lui che illumina il discernimento; è Lui che orienta le scelte e le decisioni. È Lui soprattutto che crea l’armonia, la comunione nella Chiesa. Mi piace come lo definisce San Basilio: Lui è l’armonia. Non ci facciamo l’illusione che il Sinodo lo facciamo noi, no. Il Sinodo andrà avanti se noi saremo aperti a Lui che è il protagonista. Afferma la Lumen gentium: «Egli – lo Spirito – introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22)» (n. 4).
Grazie del lavoro che state facendo. Quando sono entrato uno di voi mi ha detto un’espressione molto argentina, che non ripeto, ma ha una bella traduzione in italiano, che forse lui dirà… Una cosa che sembra disordinata… Pensate al processo degli Apostoli la mattina di Pentecoste: quella mattina era peggio! Disordine totale! E chi ha provocato quel “peggio” è lo Spirito: Lui è bravo a fare queste cose, il disordine, per smuovere… Ma lo stesso Spirito che ha provocato questo ha provocato l’armonia. Entrambe le cose sono fatte dallo Spirito, Lui è il protagonista, è Lui che fa queste cose. Non bisogna avere paura quando ci sono disordini provocati dallo Spirito; ma averne paura quando sono provocati dai nostri egoismi o dallo Spirito del male. Affidiamoci allo Spirito Santo. Lui è l’armonia. Lui fa tutto questo, il disordine, ma Lui è capace di fare l’armonia, che è una cosa totalmente diversa dall’ordine che noi potremmo fare da noi stessi.
Il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.