Messa conclusiva: l’omelia del Card. Zuppi
17 Novembre 2024
Pubblichiamo l’omelia che il Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, ha pronunciato durante la Messa conclusiva della Prima Assemblea sinodale, nella Giornata Mondiale dei Poveri.
Se è vero che più ci avviciniamo a Dio più ci avviciniamo gli uni agli altri, ecco che capiamo la gioia del nostro camminare insieme che trova la sua pienezza nell’Eucaristia. Quanta sorpresa e quanta gioia nel conoscersi, riflettere assieme, raccontare (quando si racconta quello che si vive lo si capisce meglio). Camminare insieme non solo nelle e tra le nostre comunità, ma insieme a tutta la Chiesa. Nel giorno del Signore e attorno alla sua mensa, capiamo cosa significa “insieme”, essere una cosa sola tra noi, nonostante la nostra umanità, così parziale e contradditoria. Qui siamo come Dio vuole: non tutti la stessa cosa, ma tutti una cosa; non uguali, ma uniti. Con noi ci sono già quei “tutti”, la moltitudine, numero indefinito e mai chiuso, per i quali Gesù spezza il pane e versa il vino, e che ci chiede di cercare, di amare.
Camminiamo insieme ai nostri compagni di strada. Troveremo i modi – alcuni formali, altri aperti e spontanei – per permettere ed esprimere il camminare insieme con i tanti mendicanti di vita che incontriamo, tutti fragili anche se lo dimentichiamo. È una fragilità da amare e non da giudicare, fuggire, nascondere, maledire. Da amare, perché diventi forza, ricordando, come l’Apostolo, che è quando siamo deboli che siamo forti. L’individualismo ci rende in realtà fragili proprio perché ci persuade a cercare la forza nell’esibizione di sé, nell’autosufficienza, nel prendere, nel possedere. L’individualismo rende tutti i legami relativi, relativi a sé, invece di relativizzare l’io all’altro! Poi però, poiché non siamo un’isola, restiamo tutti mendicanti di amore, che sciupiamo perché lo pieghiamo alla personale soddisfazione, alla verifica della propria capacità da prestazione.
In questa domenica siamo tutti accolti e aiutati a essere umili, a piegarci sui nostri fratelli più piccoli: non a fare qualcosa, ma a pensarci insieme, come chi ama. Sono loro il nostro prossimo, non degli utenti. Quanti fratelli più piccoli di Gesù, quanta fame e sete, quanti forestieri criminalizzati e non accolti, quante cause di questa povertà, solitudine, spogliazione della dignità, prigioni senza luce e malattia senza cure e senza compagnia sono frutto della povertà ingiusta, di ingiustizia e di persone ingiuste. I poveri fanno parte di diritto della nostra famiglia e, se lo diventano, anche noi sperimentiamo in anticipo la gioia del cielo. Li amiamo non perché sono buoni – e quindi non li scansiamo – non perché non lo sono o non sono come noi pensiamo debbano essere, ma perché fratelli e fratelli di Gesù che ce li affida.
Siamo giudicati da cosa facciamo ai poveri, non dalle idee su di loro o dalle dichiarazioni. Essi non sono una categoria, ma persone da incontrare, toccare, vedere, sollevare. È una questione di amore che diventa risposte, case, rete di protezione, visita, anche economia rinnovata. Il tema della Giornata mondiale di quest’anno è: “La preghiera del povero sale fino a Dio” (cfr. Sir 21,5). Ma noi la ascoltiamo? Facciamo nostro il grido di aiuto, a volte silenzioso ma evidente nella stessa condizione di sofferenza, come le malattie dell’anima e della mente, come le tante immagini che ci sono offerte, a volte senza pudore, e che sono un grido di aiuto: “Guardami, fa’ qualcosa, non lasciarmi solo”. I poveri sono maestri di preghiera proprio per l’insistenza, come quella vedova povera di cui parla il Vangelo. Sono i piccoli che capiscono il segreto del Regno e sono loro che possono farcelo capire. Ascoltando la loro sofferenza Dio, al contrario degli uomini, è “impaziente” fino a quando non ha reso loro giustizia: «La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità» (Sir 35,21-22). Dio conosce le sofferenze dei suoi figli, perché è un Padre attento e premuroso verso tutti. E noi possiamo essere distratti, indaffarati tanto da credere di non avere mai tempo per poi sprecarlo in quello che non vale?
Ringraziamo anche perché ci sono tanti benedetti (e la benedizione non ce la diciamo da soli, ma ce la dice il Giudice e la gratitudine del prossimo) che danno concretezza alla risposta di Dio alla preghiera di quanti si rivolgono a Lui e questo avviene ogni volta che un fratello nel bisogno viene accolto e abbracciato. Siamo benedetti se siamo una benedizione per i poveri.
I poveri, in una cultura che ha messo al primo posto la ricchezza e spesso sacrifica la dignità delle persone sull’altare dei beni materiali, ci insegnano che l’essenziale per la vita è ben altro. La loro preghiera insegna a pregare e viceversa. Non sono assolutamente due dimensioni indipendenti, anzi! Preghiera e amicizia con i poveri si nutrono a vicenda. Madre Teresa di Calcutta, all’ONU, mostrando a tutti la corona del Rosario che teneva sempre in mano, disse: «Pregate anche voi! Pregate, e vi accorgerete dei poveri che avete accanto. Forse nello stesso pianerottolo della vostra abitazione. Forse anche nelle vostre case c’è chi aspetta il vostro amore. Pregate, e gli occhi si apriranno e il cuore si riempirà di amore». Il nostro è un mondo sconvolto, dove ci abituiamo alla povertà che non scandalizza più. Di che tempo parla il Vangelo? Del nostro? Non è soltanto la fine, ma lo vediamo già oggi. Per chi si chiude nelle sicurezze o resta sul divano, questa descrizione può apparire lontana, impossibile, un fastidio per noi pigri e incoscienti. In realtà, ci aiuta a guardare la storia e i segni dei tempi. Siamo uomini di speranza proprio perché affrontiamo il male, il sole che si oscura, come quando si fa buio fuori e dentro il cuore. E quello dentro dura tantissimo. Le stelle cadono e tutto si sconvolge, come nei bombardamenti ma anche nella mano alzata contro il fratello, nella violenza banale, sempre senza senso, che diventa padrona delle persone, nascondendo l’umanità, non fa capire le conseguenze dei gesti, lasciando come storditi. Allora vediamo il Figlio dell’uomo. Ecco la fede. E, se lo vediamo, lo facciamo vedere, riflettendo un poco della sua luce. Noi possiamo essere uno degli angeli che fa sentire amati, protetti, difesi. Ognuno di noi può essere un astro che si accende e dona luce nell’oscurità terribile della vita. Siamo noi la sua parola di amore che non passa, con legami fedeli, perché il Samaritano assicura di tornare, non si compiace di quello che ha fatto lui ma fa quello che serve per l’uomo mezzo morto.
Ecco, se camminiamo insieme ai poveri, sapremo camminare tra noi, perché Gesù sarà in mezzo a noi e aiuteremo questa madre (la Chiesa), sempre lieta, che è di tutti, particolarmente dei poveri.