L’introduzione del Card. Zuppi

31 Marzo 2025
Carissimi e carissime, benvenuti!
È una gioia salutare tutti voi, fratelli e sorelle, Vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche con l’augurio, tratto dalle parole che ci accompagneranno in questi giorni: «Che la nostra gioia sia piena!» (cf. 1Gv 1,4). Sono parole che ci riportano al senso della nostra chiamata, che il Giubileo ci dona con larghezza, ci introducono in quella casa dove il Padre getta le braccia al collo e ci bacia, liberandoci dalla dannazione del mio perché in quella casa tutto ciò che è mio è tuo! È gioia che ci libera dalla tentazione del pessimismo, dal fatalismo che fa sperare solo dopo che abbiamo le risposte o garanzie sufficienti, scambiando questo come realismo, finendo lamentosi e fragili. È vero anche per noi: «Tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti» (Spes non confundit, n. 9).
Il nostro pensiero va subito a Papa Francesco, che del resto del Gaudium ha fatto la cifra del suo ministero, per liberare da un cristianesimo triste, ripiegato su di sé, ridotto a tranquillizzante, inquieto per l’interno e non per il mondo, ossessionato difensore delle proprie paure che scambia per verità perché ha perso il senso della storia, diventando giudice purista, attivo pelagiano che si fida delle sue opere o gnostico innamorato dei propri ragionamenti o interpretazioni.
A Firenze, l’Evangelii gaudium in italiano e per l’Italia, Papa Francesco ci chiese: «In ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium». Disse ancora: «La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda». E aggiunse: «Il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. […] L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di “rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli” (Esort. ap. Evangelii gaudium, 49)» (Discorso, 10 novembre 2015).
È facile finire per essere scontenti, ipercritici (sugli altri) e poco capaci di gioire della tanta santità della “porta accanto”, alla ricerca di una comunità virtuale, che non esiste, e umiliandosi poco, proprio come la nostra generazione, a costruire relazioni, legami concreti e veri. Oggi torniamo qui dove tutto era iniziato: nella sede di Pietro, il 30 gennaio 2021, quando rivolgendosi all’Ufficio Catechistico Nazionale, il Papa ci incoraggiò a intraprendere in modo deciso il Cammino sinodale. «La Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, Diocesi per Diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare» (Discorso, 30 gennaio 2021).
Abbiamo iniziato a camminare e il cammino, come sempre, si è aperto a mano a mano, con buona pace di chi pensava necessario conoscerlo tutto prima di partire, per poi restare fermo o restare a discutere, diciamo così, da fermo, in surplace! Solo camminando, abbiamo capito cosa significa sinodale, quanto sia una dimensione costitutiva e una forma indispensabile della Chiesa, scelta di pensarsi insieme, nella vita, nel cammino per la gioia che vogliamo raggiunga tutti. Oggi ci sentiamo di nuovo a casa, qui nella casa di Colui che presiede nella carità, il servo dei servi che ci ricorda che siamo qui solo per servizio e che ci guida con il suo magistero e con i suoi gesti, per amare e custodire l’unità della Chiesa nella comunione. Lo ringraziamo per l’attenzione paterna che sempre rivolge alle Chiese in Italia e Gli assicuriamo la nostra preghiera per la Sua salute. Si uniscono a noi i tanti compagni di strada che si sentono vicini a Lui.
La gioia! I lavori di questi giorni saranno introdotti dalle parole del Presidente del Cammino sinodale, Mons. Erio Castellucci. Permettetemi di ringraziarlo insieme a Mons. Valentino Bulgarelli, a tutto il Comitato, alla Presidenza di questo, ai referenti che con generosità personale non hanno fatto mancare il loro contributo e la loro speranza, anche tra non poche difficoltà.
- Quello che da principio abbiamo udito
«Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita…» (1Gv 1,1). Tutto inizia con un’esperienza concreta di Dio. Apparentemente i protagonisti sono gli uomini, ma in realtà il protagonista della storia è il Verbo della vita che si è fatto conoscere dagli uomini. Il vero protagonista è il Signore e non il nostro protagonismo, raffinato o rozzo che sia, che ci rende attenti più alla considerazione che al contenuto, al ruolo più che al servizio, al risultato più che al processo, allo spazio più che al tempo. È lo Spirito che nel Cammino sinodale svolto in questi anni ci ha donato il tempo in cui il Signore si è fatto ancora conoscere, il tempo in cui lo Spirito ha continuato a parlare alle Chiese (cf. Ap 2-3). Il Cammino sinodale è stato ed è un percorso fondamentalmente spirituale, un’occasione propizia per rinnovare il legame tra la Chiesa e il suo Signore Risorto, un modo per leggere i segni dei tempi, dilatare il cuore nella fede, nella speranza e nella carità, per costruire comunità e la Chiesa di Dio. A mio parere è proprio questo il problema che ci deve appassionare per il futuro: costruttori di comunità, di relazioni, di famiglie dove si è generati alla vita e si ricostruisce il “noi” della casa del Padre, altrimenti blindata dal rancore ferito del fratello maggiore che non ha interesse alla fraternità. Il “modo sinodale” di cui parlava il Papa è diventato lo stile che ci ha ispirato in questi anni di Cammino sinodale.
- La nostra gioia
San Giovanni nell’incipit della sua Prima Lettera dice: «Perché la nostra gioia sia piena». Non si tratta né solo della mia né solo della vostra, ma della nostra gioia. La casa del Padre si riconosce da quell’amore dove – non conosco amore che non sia così – mio e tuo coincide. Siamo in un mondo che ha paura di pensarsi insieme e finisce attratto dalla forza di un “io” che si impone e risolve, con sintesi che a volte appaiono grottesche, altre preoccupanti e pericolose. La gioia cristiana che il Cammino sinodale ci ha concretamente illustrato è comunitaria, ecclesiale, non per élite di Chiesa, ma finalmente al plurale e per tutti.
La seconda caratteristica della gioia sinodale mi pare di poterla scorgere già in quel documento che non a caso porta il titolo di Gaudium et spes, ultimo testo del Concilio promulgato proprio sessanta anni fa, il 7 dicembre 1965. Lì il Concilio illustrava una caratteristica fondamentale della Chiesa cattolica: l’attitudine positiva al dialogo con il mondo, franco, sereno, maturo, propositivo e, se necessario, critico, sempre audace per difendere il Signore e la persona. Questo dialogo è essenziale: non c’è infatti gioia cristiana senza inserimento pieno nella storia, senza coinvolgimento attivo nelle vicende della gente, senza lettura dei segni dei tempi, senza amore per tutti, soprattutto per quanti si trovano relegati, loro malgrado, nelle periferie esistenziali. La gioia che vogliamo annunciare è dunque “nostra” nel senso che è di tutta la Chiesa ed è anche aperta, offerta con rara gratuità a ogni donna e uomo di questo nostro tempo. Il Cammino sinodale ci ha insegnato a non restare soli, a non pensarci da soli arrivando a temere di perderci, noi che siamo chiamati a essere lievito, luce, sale e che siamo ammoniti quando viviamo per noi stessi non quando comunichiamo il Vangelo.
Ancora la Prima Lettera di Giovanni parla di una “gioia piena”. In questi cinque anni siamo passati attraverso diverse fasi certamente intense, a volte faticose, qualche volta frustranti, ma anche in questo fruttuose: l’ascolto, il discernimento e la profezia. Proprio la profezia avrà in questa Assemblea una tappa fondamentale. È bene dunque non dimenticare cosa ha consentito la maturazione di questa fase ultima. All’inizio siamo tornati a esercitarci nell’arte sublime dell’ascolto. Abbiamo voluto che tutti fossero ascoltati e che si sentissero ascoltati. L’ascolto ha fatto bene a chi ha ascoltato e a chi è stato ascoltato. Non si è trattato di un’operazione di facciata, ma di obbedienza alla Parola di Dio, che si rivela nelle Scritture e nella storia delle persone. Così le nostre Chiese si sono rese penetrabili alle voci più diverse, nella consapevolezza che lo Spirito «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va» (cfr. Gv 3,8). Mi sento di dire che un primo risultato del Cammino sinodale è stato proprio questo stile dell’ascolto ecclesiale, a cui è corrisposta la libertà di chi si è espresso sentendosi partecipe e accolto. Non dovremo perdere questo slancio anche in futuro.
Abbiamo poi imparato l’arte del discernimento ecclesiale. Il Vangelo è stato il caleidoscopio attraverso cui abbiamo guardato quanto abbiamo appreso nella prima fase. Le sintesi diocesane hanno mostrato la sensibilità delle Chiese locali nell’individuare le azioni pastorali sentite come più urgenti a quelle meno. Mi pare di poter vedere qui una espressione chiara del sensus fidelium. E le Proposizioni che discuteremo in questi giorni ne sono il distillato migliore. Davanti a noi abbiamo le Proposizioni: ma tutti noi sappiamo che dietro c’è molto di più. C’è la vita e le attese delle nostre Chiese.
Con questa Seconda Assemblea Sinodale chiudiamo la terza fase: quella della profezia. Dopo aver dedicato spazio a raccogliere suggestioni e a mettervi ordine, ci attendono scelte importanti, di stile ecclesiale e di merito. Sarebbe un tradimento dello spirito del Cammino sinodale pensare che tutto sia finalizzato a un mero cambio di strutture esterne. Tutti noi sappiamo che sono le persone a cambiare le strutture, e non viceversa. La vicenda stessa di Gesù e dei suoi discepoli ce lo insegna. Non ci sottrarremo certo alla responsabilità di cambiare le procedure, a livello diocesano, regionale e anche nazionale, se lo riterremo necessario: ma non perdiamo l’orizzonte spirituale entro cui ci muoviamo. La passione di comunicare la gioia e la speranza del Vangelo si unisce alla coscienza di non separare più la propria salvezza da quella altrui. Paolo VI e il Concilio interpretano la salvezza come qualcosa che si cerca e si riceve mai separati dagli altri. Papa Francesco, durante la pandemia, il 27 marzo 2020, affermò in un tempo di grande crisi: «Nessuno si salva da solo» (Omelia). La Gaudium et spes inizia così: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli…» (n. 1). La compassione non è separarsi dalla storia del mondo, delle donne e degli uomini, piccola, dei poveri, più larga, ma condividerla interiormente e nei fatti. È il nostro orizzonte. Bisognava rimettere il Vangelo «nella circolazione dell’umano discorso» (Ecclesiam Suam, n. 82), espressione bellissima per dire: far scorrere la Parola di Dio nelle vene della società, nei pensieri, nelle discussioni e nelle parole dei contemporanei, nella vita delle persone e nella cultura. Non ci rassegniamo davanti alla realtà malata della società, come se non si avesse niente da dire o da dare. La visione della Gaudium et Spes richiama «l’indole comunitaria dell’umana vocazione» (n. 24). «Iddio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che tutti gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro come fratelli… Perciò l’amor di Dio e del prossimo è il primo e più grande comandamento» (Gaudium et Spes, n. 24). La fraternità diventa un metodo – si legge nella Gaudium et spes – per «superare, in questo spirito di famiglia proprio dei figli di Dio, ogni dissenso tra nazioni e razze…» (n. 42). Dalla fraternità dei pochi alla fraternità senza confini.
Questo è il mio augurio: che alla fine di questa Seconda Assemblea sinodale delle Chiese che sono in Italia tutti insieme si possa dire che costruiamo comunità aperte, piene di Dio e di umanità. Adesso davvero la nostra gioia è piena non perché abbiamo tutte le risposte, ma perché siamo in cammino dietro a Gesù, forse più poveri ma più vicini tra noi e ai compagni di strada.
Conclusione
Desidero concludere questa mia introduzione e aprire la Seconda Assemblea sinodale con un incoraggiamento a tutti, ad iniziare da me stesso. Molto dipenderà da noi, dal nostro lavoro serio e saggio di questi giorni, audace e pieno di speranza. Abbiamo un compito delicato: quello di aiutare i Vescovi, che si riuniranno nell’Assemblea generale di maggio (26-29 maggio 2025). Anche per questo passeremo insieme la Porta Santa del Giubileo da pellegrini di speranza e, per questo, pieni di gioia perché pieni di Cristo. Così invitava Padre David Maria Turoldo: «Voi che credete / voi che sperate / correte su tutte le strade, le piazze / a svelare il grande segreto…Andate a dire ai quattro venti / che la notte passa / che tutto ha un senso / che le guerre finiscono / che la storia ha uno sbocco / che l’amore alla fine vincerà l’oblio / e la vita sconfiggerà la morte. / Voi che l’avete intuito per grazia / continuate il cammino / spargete la vostra gioia / continuate a dire / che la speranza non ha confini».