Mons. Brambilla: “Tra voi però non è così”

Mons. Brambilla: “Tra voi però non è così”

26 Ottobre 2021

In comunione con tutte le Chiese del mondo diamo inizio nelle Chiese locali al Sinodo della Chiesa universale che si terrà nel 2023, e al Sinodo della Chiesa italiana che si inoltrerà fino al 2025.

Il tema del Sinodo è, come si vede anche nel logo, “Per una Chiesa sinodale – comunione, partecipazione missione”. La prima fase, che coincide con il Sinodo della Chiesa italiana, è dedicata all’ascolto, al racconto e alla ricerca di vie nuove. Trovo un segno bello che il Sinodo inizi quando, se non vedo male, stiamo uscendo dalla pandemia tanto che a fine mese dovremmo avere la serena certezza di poter guardare avanti. Questo ci aiuta a trasformare la ripartenza in rinascita.

È quasi una coincidenza – succede poche volte – che possiamo vivere questa celebrazione insieme, un po’ simbolica per tutta la diocesi, dopo aver compiuto oltre la metà della visita pastorale nel vicariato dei Laghi, nel Cusio, avendo terminato proprio in questo giorno la seconda tappa. È per questo che ci troviamo qui ad Omegna. Ed è una circostanza felice che la Liturgia della Parola di Dio di oggi, XXIX Domenica del Tempo Ordinario, ci inviti ad un percorso che trovo molto bello e che possiamo dividere in cinque piccoli passi, attraverso cinque espressioni del Vangelo di oggi (Mc 10, 35-45) 

  1. “Sedere alla destra e alla sinistra”: il desiderio confessato 

Così come la nostra diocesi, che ha già celebrato un sinodo pochi anni orsono, ora deve rivivere la stessa esperienza, riprendiamo, con il brano evangelico di oggi, la medesima situazione di quattro domeniche fa, perché lo stesso episodio, pur con leggere varianti, era già occorso nel Vangelo di Marco (Mc 9,30-37). In quella domenica il Vangelo narrava che Gesù, rientrato in casa, aveva domandato ai discepoli di che cosa stessero discutendo lungo la via. L’evangelista annota con una frase sorprendente che “essi tacevano” (Mc 9, 34a). E poi continua, con un commento amaro: “Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande” (Mc 9, 34b). Una situazione simile si presenta qui e in questo caso il racconto è personalizzato. Infatti, troviamo due “simpatici” discepoli e fratelli, Giacomo e Giovanni, che peraltro con Pietro partecipano ai momenti più intimi del mistero di Cristo, sul Tabor, al Getsemani nell’orto degli ulivi, mentre egli compie qualche miracolo. Essi si avvicinano a Gesù e gli dicono: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». (Mc 10, 35-37)

Ricercare una buona posizione al momento buono e al posto giusto, è sempre qualcosa che attira. Nel brano parallelo di Matteo (Mt 20,20) in verità c’è una variante interessante – riguarda persino noi sacerdoti, quando anche le nostre mamme chiedono e desiderano per noi posti di rilevanza o buoni posti! – ed è il fatto che la madre dei figli di Zebedeo si fa avanti per avanzare la richiesta di mettere i figli alla destra e alla sinistra di Gesù. Sia la domanda con cui l’evangelista Marco dice che lungo la via avevano discusso su chi fosse il primo e il più grande, sia questa del poter sedere alla destra e alla sinistra manifesta un desiderio nascosto, ma finalmente confessato. Tutti, dobbiamo ammetterlo, abbiamo il desiderio di avere un buon posto nella comunità e nella società! Vale a dire di essere identificati per il ruolo. Abbiamo bisogno di identità. E non dobbiamo subito interpretare questa domanda come sconveniente. Gesù infatti non la reprime, ma ne cambia la direzione, l’orientamento e la indirizza verso un altro fine. 

  1. “Voi non sapete ciò che chiedete”: partecipi del destino di Gesù

 Ecco la seconda espressione scioccante: “Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete…»” (Mc 10,38a)La frase potrebbe essere letta anche in forma in domanda: “Sapete quello che chiedete?”.  E qui nella scaletta del discorso, nell’intrigo del racconto evangelico però viene subito precisato che a questi discepoli, ma anche a tutti gli altri che sono d’attorno, è richiesto di essere partecipi del destino di Gesù. Infatti: «… Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». (Mc 10,38b)

 «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati…». (Mc 10,39) 

Essere partecipi del destino di Gesù significa far comprendere ai due discepoli che stare alla sua destra o alla sua sinistra, è chiedere di stare in un posto rischioso, domanda coraggio e ardimento, non è fatto per gente che vuole mettersi a posto o vuole sistemarsi. Faccio notare che siamo ancora al livello del racconto evangelico, dove i dodici rappresentano tutto il popolo di Dio. Quindi questo non è un discorso rivolto solo a preti o a vescovi, ma è per tutti. È giusto che noi confessiamo il nostro desiderio di essere i primi e i più grandi, di avere un posto, di possedere un’identità, di avere un ruolo, di cercare una capacità di intervento dentro la comunità, tuttavia Gesù ci ammonisce avvertendoci che per l’aspetto più importante, noi saremo partecipi di un destino che, seppure sia impressionante a dirsi, passa attraverso la croce. 

  1. “Gesù li chiamò a sé”: l’indignazione dei dieci 

“Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovan­ni. Allora Gesù li chiamò a sé” (Mc 10,41-42). Nel testo originale greco il verbo indignarsi – ἀγανακτεῖν – esprime con maggior veemenza la reazione rabbiosa degli altri dieci. In questo caso il testo è stato un po’ edulcorato dai traduttori per l’uso liturgico, ma l’evangelista Marco utilizza verbi molto forti che attribuisce anche a Gesù quando si indigna. Si indignano tutti, come enfaticamente indica il numero dieci: se si aggiungono i due, il numero dodici richiama alla totalità, al popolo intero. Poi con un’espressione che io amo molto e che ricorre già prima nel vangelo, il racconto prosegue: “Allora Gesù li chiamò a sé” (Mc 10,42).

Ricordo che siamo al capitolo decimo e tra non molto inizierà il racconto della Passione. Gesù a questo punto fa riascoltare la chiamata originaria. Infatti al capitolo 3,13 del vangelo di Marco troviamo la stessa espressione:  “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli , perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni. (Mc 3,13-15)

 Dopo sette capitoli, nel momento più bello, nel momento topico della crisi, Gesù rimanda alla prima chiamata, rimanda all’origine. Il proprio ruolo, la propria identità, il posto, la presenza, la capacità di intervento nella comunità, nella società civile devono sempre ritrovare la motivazione profonda, riandando al momento originario. Così lo deve fare soprattutto chi si è dedicato a fare il papà, la mamma, l’educatore, l’allenatore, il professore, il direttore di coro, o semplicemente il credente tra gli altri. Qual era all’inizio la motivazione fondamentale? Ti sei mosso per amore, per una scelta che toccava il cuore, oppure è stata una scelta faute de mieux – in mancanza di meglio –? Per questo Gesù fa riascoltare ai suoi discepoli e a noi la chiamata dell’inizio, ci riporta alla sorgente della nostra vocazione! In tutti i momenti di crisi della vita, se non si riascolta la voce dell’inizio, non si può andare avanti, non si possono fare i due passi che seguono.

Senza soluzione di continuità, Gesù aggiunge: “… disse loro” (Mc 10,42) e segue un testo lungo che è la vera rivelazione profetica di Gesù da cui raccogliamo le ultime due espressioni della trama del racconto che stiamo seguendo.  

  1. “Tra voi però non è così”: sapere del mondo e stile della chiesa 

La prima espressione è detta per contrasto, proclamata con un forte “però”. “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono”.  (Mc 10, 42). Gesù si richiama al sapere dell’esperienza del mondo: dovreste saperlo, dovreste averne l’esperienza, dovreste aver notato bene la cosa… “Tra voi però non è così”. (Mc 10, 43).

A tutti noi verrebbe da dire: “non sia così”! Così ci parrebbe più elegante, ma “sia” è il modo del verbo esortativo, “è” invece esprime il modo del verbo indicativo. Qui tuttavia abbiamo l’indicativo perché, accompagnato da quel “però”, significa che tra l’esperienza del mondo, il sapere del mondo, la scienza di come si governa la vita sociale, che spesso ha la forma del potere, e l’esperienza dello stile della vita della Chiesa, ci dovrebbe stare un “però”! Tra i due vi è una differenza fondamentale.

Anch’io ho usato il modo del verbo condizionale: “ci dovrebbe stare”, perché siamo costretti ad ammettere che dovrebbe esserci un “però”. Infatti, in duemila anni di storia della Chiesa, si è sperimentato e si sperimenta ogni giorno come sia difficile passare dalla forma condizionale a quella indicativa.

La frase di Gesù “tra voi però non è così” rimane conficcata come un chiodo dentro la nostra carne, per purificare ogni volta, daccapo, la forma del nostro potere – che non è una parola negativa – il quale è la capacità di intervenire sulla vita delle persone per farla crescere, perché di per sé il potere sarebbe questo. Il verbo servire indica che la nostra opera deve far crescere la vita e non deprimerla, non impoverirla. E per questo ci vuole il “potere”, che in prima battuta significa “avere la capacità di”, “essere capaci di”: io posso! E tuttavia ci sono due stili nell’esercizio del potere: quello del mondo che è la forma concreta del potere, che talvolta interviene senza far crescere la vita; e lo stile che per sé sarebbe proposto ai credenti, che ha un influsso anche sul mondo, e che deve promuovere le relazioni, la vita buona! Per questo il Sinodo può influire sul mondo se attua quanto è espresso dall’indicativo di Gesù: “tra voi però non è cosi!”

Cari amici, nei primi tre secoli dell’evo cristiano ci fu una grande questione posta ai cristiani, ai quali veniva rimproverato di aver minato la potenza dell’Impero romano, con l’introduzione del cristianesimo nella cultura ellenistica. Questa fu l’obiezione che Sant’Agostino prese sul serio e a cui rispose scrivendo il De Civitate Dei – La città di Dio! È un’opera immensa che risponde alla critica pagana che il Cristianesimo avesse corrotto dal di dentro la vita sociale e avrebbe fatto saltare la potenza del mondo romano. In realtà, fu lo stile di vita dei cristiani – questa la risposta del vescovo di Ippona – che ha introdotto un germe di novità sul quale è costruita la seconda metà del primo millennio e tutto il secondo millennio della storia dell’Occidente. Non sarebbe neppure possibile immaginare tutti i temi del secondo millennio: giustizia, democrazia, dignità, laicità, partecipazione, se non ci fosse stato questo passaggio fondamentale.

Dobbiamo dire onestamente che l’indicativo fulminante: “tra voi però non è cosi!” è un comandamento che non sta alle nostre spalle, ma sta sempre davanti, perché proprio in questo caso sperimentiamo che il vangelo è Vangelo, che non possiamo appropriarcene, non può diventare una proprietà sicura, ma va sempre seguito, invocato, pregato, raggiunto, e non uso la parola conquistato, perché intende sempre un possesso. Il Vangelo – questo Vangelo della vita nuova tra i credenti – rimane sempre eccedente, sta oltre le nostre possibilità! Ha bisogno dello Spirito Santo! Questo è il senso che vogliamo dare al cammino sinodale. Dipenderà da tutti, dovremo ascoltarci, ricercare vie nuove, fare proposte praticabili, ma soprattutto sarà necessario ascoltare la voce dello Spirito.

La Chiesa italiana ha messo in campo cinque anni. Dovremo certo fare le cose di prima, ma con uno stile diverso, con uno sguardo diverso. Non c’è un programma deciso a monte da mettere in pratica, ma c’è un percorso che si costruisce camminando insieme, confrontandosi, discutendo, decidendo. Per questo i tre sostantivi del primo tempo del Sinodo della Chiesa in Italia sono “ascolto, ricerca, proposta” – ascoltare, ricercare insieme, proporre. Come si può notare il “Cammino sinodale” si inserisce bene nella ripartenza, nel rinnovamento dopo la pandemia. Cosa sopravvivrà di ciò che è essenziale per la vita sociale e la vita cristiana? Ancora non lo sappiamo. Ma sappiamo che sarà decisivo quanto ci dice l’ultima immagine del racconto. 

  1. “Dare la vita in riscatto per molti”: servi per essere primi/grandi

 «Ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti». (Mc 10, 43-45)C’è un bel parallelismo sinonimico in crescendo tra “servo vostro” e “servo di tutti”. Si è servi della comunità, perché la comunità si ponga al servizio di tutti. Non si è servi della comunità, se ci si chiude nel cerchio magico del gruppo di eletti, ma si diventa servi nella chiesa quando si vive una fraternità aperta a tutti,  capaci di essere specchio per la vita umana e civile, nell’attuale società multietnica e multireligiosa.

Nell’episodio parallelo, che abbiamo ascoltato quattro settimane fa (Mc 9,30-37), Gesù aveva messo al centro un bambino: “E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; (Mc 9,36-37),  

In quel caso aveva messo al centro un bambino, ora Gesù mette al centro se stesso, come il “piccolo”, il “figlio” del Padre. Gesù si rappresenta in terza persona: “«Anche il Figlio dell’uomo infatti…»” (Mc 10,45)

Gesù si mette al centro – “Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (cfr Lc 22,27) Naturalmente l’interpretazione più facile intende che Gesù sta in mezzo a noi come uno che è al servizio della vita tra gli uomini. Non è solo così. Gesù sta in mezzo a noi come colui che serve il nostro rapporto con Dio e per questo serve anche la comunione tra gli uomini. Perché senza il primo servizio anche il secondo è appoggiato sul nulla.

“«Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire…» (ibid.)

E poi segue un altro parallelismo sinonimico, come lo definiscono i biblisti, “per farsi servire” “per dare la propria vita in riscatto”. La frase parallela arricchisce il senso variando i termini:

 “«…e dare la propria vita in riscatto per molti». (Mc 10,45)

Il modo cristiano di servire è contenuto nella parola riscatto. Servire significa per i credenti entrare dentro le fatiche e le sofferenze, i mali degli uomini, le divisioni, le separazioni, ma anche le istanze, gli impulsi positivi e lavorare dal di dentro il tessuto vivo dell’umanità (= i molti, la moltitudine) per portarlo a riconciliazione. Il riscatto è strettamente legato alla redenzione. Riscatto è il contrario di condono! Perché il condono mette una pezza sopra, il riscatto lavora in profondità, risana dal di dentro, ritesse le relazioni spezzate, scioglie i rapporti di dominio, guarisce pian piano le vite ferite, affranca dalle catene, libera per la comunione e costruisce la vita fraterna. Pensate cosa significa tutto questo per i rapporti sociali. E immaginiamo cosa vorrà dire trovare oggi le forme che riscattano le relazioni parentali e familiari, umane e sociali. Abbiamo davanti una frammentazione del corpo sociale che esige un servizio interminabile, una fantasia che vada al potere, non per essere servita, ma per servire! Questo “dovrebbe essere” il nostro modo di essere primi e grandi. Viene spontaneo usare ancora il condizionale, perché sappiamo che senza il Signore in mezzo a noi, non possiamo fare nulla. Con tanti auguri!