Rilancio alle Diocesi del Card. Zuppi

Rilancio alle Diocesi del Card. Zuppi

19 Novembre 2024

Sento tanta gioia per questo incontro così insolito, che unisce tutte le nostre realtà, che vuole guardare il futuro con consapevolezza e profezia. Questa non significa affatto inventarsi qualcosa di originale, per evitare i problemi o risolverli senza difficoltà. La profezia entra nella storia, si misura con i suoi limiti e anche con la forza del male. Scruta i segni dei tempi, soffre facendo sua la sofferenza terribile che investe il mondo e quel mondo che è ogni persona, spesso buttata per strada da banditi che le rubano la vita con la complicità di quanti restano a distanza, guardano e non fanno, si voltano dall’altra parte. L’indifferenza rende tutto indistinto, pensiamo ci protegga perché non ci fa coinvolgere e quindi soffrire, ma ci condanna a essere senza il prossimo, quindi senza l’altro. Non ci si sporca le mani perché indifferenti o indifferenti perché non ci si può sporcare le mani? Quello che è certo che se non ci si accorge della vita si finisce per essere soli, giustificati da tante motivazioni che sembrano religiose e che in realtà sono anche senza Dio. Profezia è scoprire il prossimo facendosi carico, cercare oggi quello che sarà domani, seminare con larghezza perché altri possano raccogliere, credere che tutto possa cambiare e che l’amore vince il male.
Questo anno ci ha accompagnato il racconto della Pentecoste. Sento oggi tanta “sobria ebrezza”. Sobria. Dobbiamo essere consapevoli, ma non scettici. Sobri dal vino dei “dichiarazionismi”, che inebriano tanto da farci credere di avere capito e risolto i problemi. Sobri, misurandoci con la realtà anche attraverso delle verifiche severe, per non pensare di cominciare sempre come se fosse la prima volta, cosa che fa crescere la rassegnazione.
Sobri dalla supponenza di chi pensa di avere capito tutto o finisce per ridare importanza alle sue idee e non alla realtà, stupendosi poi perché queste non funzionano e perché la realtà non cambia. Sobri dall’enfasi che spesso usiamo per amplificare le emozioni come se questa possa dare, di per sé, contenuto che, se non c’è, non c’è. Sobri dal protagonismo, che è una malattia molto facile da prendere a tutte le età, per cui diventano importanti solo le cose che faccio io o quello che io penso, smettendo di ascoltare, parlando sopra gli altri, non confrontandosi più ma misurando tutto sull’accettazione o meno delle proprie convinzioni!
Sobri vuol dire amare con tutta l’anima, con tutto noi stessi, gratuitamente e con umiltà proprio perché il coinvolgimento personale non ha niente a che vedere con il protagonismo, il ruolo. Nella Chiesa il più grande è chi serve e noi dobbiamo fare a gara nel dono di noi stessi, nella radicalità del Vangelo e di un amore fino alla fine, quello dei martiri. Non è questione di potere ma solo di servizio, perché così è nella Chiesa.
Sobri dall’amarezza che spegne ogni entusiasmo, a volte con intelligenza purtroppo negativa, che finisce per cercare solo il male, a volte ossessivamente anche in maniera caricaturale. Qualcuno crede di essere realistico, di vedere bene mentre stravolge la realtà, riducendola alla pagliuzza mentre è solo rassegnato o vittima del male che pensa di combattere. E poi non dimentichiamo che lo Spirito cambia tutto, anche quello che noi non crediamo possibile.
Sobri anche dallo spirito mondano, dal sentirci a posto, dal vino inebriante del successo, compreso quello dei media, della considerazione, dell’imporci, omologandoci al mondo. Ci interessa solo il giudizio di Dio perché questo farà il bene delle persone. Noi dobbiamo parlare con tutti, ma al cuore e con il cuore di Dio, liberi dall’idea del potere e del successo. La partecipazione non significa che tutti debbono fare qualcosa nella logica del protagonismo. Tutti facciamo qualcosa in quella del servizio! Nel mondo io conto se mi faccio vedere e se mi vedono. Nella comunione il criterio è un altro: tutto è servizio e tutti serviamo!
Ma anche ebrezza. L’angelo dell’Apocalisse ce lo aveva chiesto. Dove è finito l’amore dell’inizio? Siamo diventati né caldi né freddi, cioè non proviamo passione o non vogliamo condividere la solitudine, l’incertezza della strada? Ebrezza, entusiasmo per un’esperienza sempre creativa e nuova dell’amore del Signore. Non abbiamo capito tutto! Sappiamo che c’è la Provvidenza, che il Signore ci mostra tanti germogli e che tante nostre realtà già si stupiscono per il fatto che tutti li sentono parlare nella loro lingua nativa! Già vediamo i frutti dello Spirito ma questo avviene solo dopo che abbiamo gettato abbondantemente nella terra degli uomini il seme della Parola, anche quando appare inutile. Non affanniamoci per quello che non vale e, pieni della forza del Signore, liberiamoci dalle misure avare, mediocri, suggerite dalla tiepidezza. Ebrezza è la passione che permette di costruire umilmente relazioni intorno al Signore, case, comunità umane, relazioni di amore. Tutto inizia con il filo d’oro dell’amicizia che è possibile a tutti.
Insieme! Coltiviamo il culto del “noi” in una generazione individualista che, alla fine pensa una soluzione con qualcuno che si imponga e risolva tutto, che non costruisce con pazienza. Costruiamo case dove si impara a pregare, a vivere la dimensione spirituale così importante e desiderata da molti, perché il materialismo pratico ottunde, confonde, dispera. Dialogare con tutti non è cedere al pensiero dominante o dare ragione a tutti, ma misurare la nostra fede, crescere nella comunicazione del Vangelo, spiegare le ragioni di sempre, arrivando al cuore, toccando il cuore. A ognuno di noi è affidata la possibilità di creare relazioni nuove, stringere amicizia con persone mai incontrate, perché, come dice il Documento finale della seconda sessione del Sinodo dei Vescovi, «la salvezza da ricevere e da annunciare passa attraverso le relazioni».
L’Apostolo scrisse la lettera ai Romani prima di andare nella città, dove, quando arrivò al termine del terribile viaggio descritto dagli Atti degli Apostoli, venne accolto proprio da loro. I fratelli gli andarono incontro al Foro di Appio e alle Tre taverne e Paolo «rese grazie a Dio e prese coraggio» (At 28,15). Sentiamo per noi queste parole e andiamo anche noi incontro ai fratelli per prendere coraggio nel nostro cammino e affrontare le sfide, pieni della passione per il Signore.
«E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio» (Rm 8,15-27).
Alla fine della lettera Paolo manda tanti saluti. Tanti nomi in versetti che spesso non leggiamo. Ecco, oggi sono i nomi nostri e dei fratelli e delle sorelle che ci aspettano e che camminano con noi. Salutateli tutti con la sobria ebrezza dell’amore che ci unisce e ci permetterà di camminare insieme.
«Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. Salutate Andrònico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me. Salutate Ampliato, che mi è molto caro nel Signore. Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio carissimo Stachi. Salutate Apelle, che ha dato buona prova in Cristo. Salutate quelli della casa di Aristòbulo. Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narciso che credono nel Signore. Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside, che ha tanto faticato per il Signore. Salutate Rufo, prescelto nel Signore, e sua madre, che è una madre anche per me. Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. Salutate Filòlogo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i santi che sono con loro. Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo» (Rm 16, 6-16).